Un anno dopo: si scriva di Marco Simoncelli. E del suo babbo

Pubblicato il 23 ottobre 2012 alle 00:00:43
Categoria: Notizie Motori
Autore: Piergiuseppe Pinto

Si scriva di Marco Simoncelli. Lo si faccia oggi, a un anno esatto dal suo addio, e lo si faccia domani senza nessuno motivo apparente. Si racconti di quei riccioli, del carattere mai domo, della passione. Dell'amore folle per una moto, tanto da non lasciarla mai - nemmeno quando gratta sull'asfalto - e restare tra le sue braccia fino all'ultimo respiro. Si parli del 58, del soprannome Sic, delle "penne" e delle cene con gli amici. Di una vitalità fuori dal comune, della semplicità. Dei suoi genitori. Del suo babbo.

Perché chi parte lascia sempre qualcosa. Eredità pesanti come macigni, se - in fondo - non sembra mai il momento giusto per salutare una cosa bella. Figuriamoci un figlio. Così oggi si scriva anche di chi resta. Di lui, quel papà che l'ha caricato con le sue mani sulla barella quando ormai il peggio era fatto, quando poco restava da fare. Lì in Malesia, in una domenica come tante, sempre al suo fianco come ogni gara.

Si racconti la dignità estrema di quest'uomo, Paolo, e della madre Rossella. Del loro pianto composto, dei piccoli occhiali scuri sopra i baffi grigi, della schiena dritta. Di quella felpa con il cappuccio e l'immancabile 58 sopra. Del legame di pancia con gli amici di Marco, quelli di una vita. Quelli delle cazzate in gioventù; sempre su due ruote, tra derapate e pieghe.

Si provi anche solo a immaginare la loro quotidianità che scorre inesorabile, senza il Sic. Di quei giorni dove manca il fiato, perchè un pezzo dentro se lo è portato via quella maledetta curva di Sepang. Ma comunque andare avanti, nel nome del figlio, che in fondo - chissà come - ha lasciato un segno profondo.

L'affetto - quello vero - non si regala nemmeno ai morti. L'ultimo saluto a Simoncelli resta uno dei funerali più incredibili di sempre. Per la gente, la semplicità e la commozione reale. C'erano le moto e la fidanzata. C'era un paese intero, l'Italia, collegata in diretta. C'erano le lacrime e i "rombi". C'era quello che lui ha costruito in soli 24 anni con spontaneità e passione.

E allora ecco il pensiero che trafigge le certezze: "Non credevo che mio figlio fosse tanto amato". Già, papà Paolo quasi fatica a spiegarselo. Allora un pezzo di quel fottuto vuoto che è rimasto si riempie. Non sfama, ma dà forza. Come gli abbracci, i messaggi, i pensieri di chi il Sic non l'ha nemmeno mai conosciuto però sente di dovergli qualcosa. Chissà come diavolo ha fatto.

Si scriva di Marco oggi, certo, perché se lo è meritato. E domani ci si porti dietro un pezzo importante di questa storia. Che, manco a dirlo, porta la firma di quel babbo: "C’è una cosa che ci rende relativamente sereni, dopo tutto quello che è successo. Al punto da portarci a dire che con nostro figlio rifaremmo tutto uguale, anche sapendo come va a finire. Che Marco era felice, faceva quello che gli piaceva. Era felice". Ci sono parole che spezzano certezze e donano speranze. Parole che ci fanno sentire piccoli di fronte a tutto, ma che a quel benedetto tutto possono - non si sa bene come - dare un senso.