In attesa di tempi migliori, quando il pugilato tornerà a offrirci l’emozione della sfida, augurandoci sia a tempi non troppo futuri, anche se è meglio attendere che rischiare. Proviamo a proporre agli appassionati della noble art, argomenti di rilievo statistico. Un gioco che ha sempre interessato. La longevità nel pugilato è indubbiamente uno di quelli più stuzzicanti. Una volta il tetto massimo per la maggior parte degli atleti erano i trent’anni. Chi li superava entrava nel libro dei veterani. Questo, fino ai tempi del secondo dopoguerra. In seguito la linea di confine ha costantemente alzato l’asticella, arrivando ad un tetto che sembrava utopistico, ovvero varcare la soglia dei 40 anni, età stellare per una disciplina dove la freschezza atletica e i riflessi sono componenti fondamentali. Anche se il numero è rimasto contenuto, il drappello si è irrobustito e qualcuno è addirittura arrivato a sfiorare il mezzo secolo. Non solo, due grandi campioni hanno varcato questo confine. Si tratta di Bernard Hopkins, che ha scelto come nike name: “The Executioner” ovvero il boia e Roberto Duran l’idolo di Panama. Due fenomeni che in carriera hanno vinto mondiali e disputato incontri di grande agonismo, quindi dispendiosi. Capaci di combattere oltre il mezzo secolo. Al momento sono in uno splendido isolamento, aspettando qualche altro fenomeno. Hopkins, è nato a Filadelfia il 15 gennaio 1965, ha vissuto gli anni giovanili nella bufera della delinquenza. A 16 anni presentava una fedina penale degna di un veterano della malavita, tra accoltellamenti e sparatorie. I giudici lo conoscevano bene, il giovanotto era un vero duro, con quel sorriso beffardo, entrava e usciva, prima nei riformatori poi dal carcere. Nel 1983 diciottenne, viene arrestato per rapina a mano armata ad una gioielleria e condannato a 5 anni. Per assurdo è la sua fortuna. In carcere la boxe risulta la terapia giusta per uscire dal tunnel, maturare e riscattarsi. Quando nel 1987 esce, non cerca i vecchi amici, ma una palestra dove continuare ad allenarsi. Passa professionista nell’ottobre 1988 a 23 anni, sotto la guida di Bouie Fisher e Nazim Richardson che andranno all’angolo fino al 2014. Dopo la sconfitta all’esordio, infila 22 vittorie a fila. A bloccarlo è l’esperienza di un altro mito della boxe. Lo batte, per il mondiale IBF dei medi, Roy Jones il 22 maggio 1993. Riprende la scalata al mondiale, che raggiunge 29 aprile 1995 a Landover (Usa) spedendo KO al settimo round, Segundo Mercado dell’Ecuador, conquistando il mondiale medi IBF, che terrà stretto, rinforzandolo con altre sigle, fino al 16 luglio 2025, ovvero 10 anni, 2 mesi e 17 giorni, il primo record a cui seguono altri non meno importanti. Con le 20 difese mette alle spalle anche Carlos Monzon, che ne aveva disputato 17 e perfino Sugar Ray Robinson nel ruolo di campione dei medi più anziano. A 40 anni, si è preso la rivincita su Jones e vincendo il mondiale mediomassimi, prima per la IBO, poi tra il 2008 e il 2014 a 49 anni cinge le altre sigle. Ha battuto in carriera Lupe Aquino, John David Jackson, Glen Johnson, Simon Brown, Keith Holmes, Felix Trinidad, Carl Daniels, William Joppy, Oscar De La Hoya, Antonio Tarver, Ronald Wright, Kelly Pavlik, Roy Jones Jr. in rivincita, Jean Pascal, Tavoris Cloud e Beibut Shumenov. Lo hanno superato solo Roy Jones Jr., Jermain Taylor (2 volte), Joe Calzaghe, Chad Dawson e Sergey Kovalev. Una sola volta ha perso prima del limite, nell’ultimo match contro Joe Smith KO all’8 round il 17 dicembre 2017. Match utile per chiudere la carriera a 52 anni e 11 mesi. Oggi è un distinto signore, con un robusto conto in banca, che vive in una bella villa a Hockkessin tranquilla cittadina del Delaware, con la moglie Janette e la figlia Latrice prossima alla laurea. Lavora con la Golden Boy di De La Hoya, l’avversario che ha battuto nel 2004. Roberto Duran (103-16), classe 1951, ha iniziato a combattere nel 1968 a 17 anni e ha smesso nel 2001. Sul ring per 34 stagioni. L’addio a 50 anni e un mese. Una carriera infinita, passando dai superpiuma (59 kg.) ai mediomassimi (80 kg). Temperamento caliente, non temeva nessuno. Indimenticabili le prime due sfide con Ray Sugar Leonard. Vince la prima, il 20 giugno 1980 conquistando il mondiale WBC welter al termine di 15 round tiratissimi sul ring di Quebec in Canada, ma cinque mesi dopo a New Orleans, perde nella rivincita, ritirandosi all’ottavo round in una situazione ancora equilibrata. Match passato alla storia per il “No mas” di Duran. Due le versioni, Duran affermò di avere avuto crampi allo stomaco, stampa e pubblico, ritennero che la tattica di Leonard del tocca e scappa, avesse innervosito il Panamense che amava la battaglia e non i tatticismi. Memorabile anche la battaglia contro Marvin Hagler per il titolo dei medi. Il mancino dal cranio pelato vinse ma dovette sudare le proverbiali sette camicie, contro un rivale meno imponente ma di una reattività pazzesca. Incassava serie tremende ma non cedeva e trovava sempre le energie per replicare. Ma lo sforzo sostenuto con Hagler lo paga sette mesi dopo contro Tommy Hearns a Las Vegas per il mondiale superwelter. Al secondo round, dopo aver sofferto nel primo, viene travolto dalle serie di un Hearns che lo prende in velocità senza dargli respiro. Una resa incondizionata e clamorosa. Due sconfitte contro l’italo americano Vinnie Pazienza, che pur inferiore tecnicamente, guidato abilmente da Dan Duva, con un abile gioco di gambe e velocità di braccia, seppe vanificare la maggiore potenza del panamense, sia a Las Vegas che ad Atlantic City. Stesso destino contro Hector Chamaco, troppo veloce e furbo, un folletto che colpiva al limite del regolamento, e legava spezzando il ritmo a Duran. Proprio Chamaco è stato l’ultimo avversario di Roberto, ma il vero motivo del ritiro fu il grave incidente in auto sofferto a Buenos Aires alla fine del 2002 “Occorre troppo tempo per il recupero – disse ai giornalisti accorsi nell’ospedale – ho diverse costole rotte, un polmone collassato, oltre a ferite varie. Peccato, potevo ancora combattere. Farò, sia pure malvolentieri lo spettatore”. Duran, in auto come nella vita, era sempre al limite. Finito in prigione diverse volte per guida pericolosa negli Usa, nonostante gli anni e una carriera pesantissima è ancora in buona forma. Lo scorso anno a ottobre, è stato ospite a Trento in occasione di una serata pugilistica della OPI in collaborazione con la Gazzetta dello Sport e chili in eccesso, è apparso vivacissimo e pronto alle battute. Lo sguardo fiero di un guerriero che non si è mai arreso. Capace di mettere in bacheca quattro cinture iridate (leggeri, welter, supermedi e medi) tra il 1972 e il 1989.
Lo seguono, a debita distanza George Foreman, il gigante texano di Houston, nato il 10 gennaio 1949, oro ai Giochi del 1968 a Città del Messico. Attivo dal 23 giugno 1969 al 22 novembre 1997, quando mancavano due mesi dai 49 anni. Big George era una forza della natura, fisico eccezionale, senza essere un fenomeno, possedeva ottimi fondamentali e la capacità di reagire dopo ogni sconfitta. Compresa quella storica del 30 ottobre 1974 a Kinshasa nella Repubblica del Congo, contro un risorto Muhammad Alì, capace di incantarlo e batterlo più sul piano psicologico che atletico. Per Foreman era la prima sconfitta dopo una striscia di 40 vittorie e la conquista del mondiale massimi. Tolto a Joe Frazier il 22 gennaio 1973 sul ring di Kingston in Jamaica e difeso due volte. Altri si sarebbero persi per strada, il grosso George invece, è stato eccezionale raccogliendo i cocci e mettendoli assieme. Mica impresa facile, ma alla fine ha compiuto il vero capolavoro della carriera. A distanza di 21 anni, con 45 primavere sulle spalle, dopo averci provato invano contro Holyfield e Morrison, centrava l’obiettivo il 5 novembre 1994 a Las Vegas, a spese di Michael Moore, che aveva scalzato Evander Holyfield cinque mesi prima. George capovolgeva una battaglia che lo vedeva in netto svantaggio sui cartellini, stendendolo al decimo round, dopo aver superato momenti drammatici. Nessuno era riuscito, dopo tanti anni a tornare campione del mondo tra i giganti. Una carriera infinita, con sole 5 sconfitte e 76 vittorie. Altro tipo di lunga durata si è rivelato Evander Holyfield, nato il 19 ottobre 1962 a Atmore in Alabama, ma residente ad Atlanta in Georgia. Beffato ai Giochi del 1984 (bronzo, ma avrebbe ampiamente meritato l’oro), si rifece con gli interessi da professionista, combattendo dal 1984 al 2011, iridato dei cruiser e dei massimi. Ha percorso tre decenni di boxe, imbattibile nella categoria inferiore, nel 1986 conquista il titolo WBA, si è difeso benissimo anche nei massimi. Vincitore due volte di Michael Tyson, anche se nella seconda sfida ci ha rimesso un pezzo d’orecchio. Conosceva bene la boxe, ma sfruttava l’esperienza sapendo innervosire l’avversario. La fila degli avversari di punta incontrati è lunghissima. Dieci sconfitte in carriera, sette dopo i 37 anni. Ha chiuso il 7 maggio 2011 la carriera, (48 anni e 5 mesi), andando a battere il danese Brian Nielsen a Copenaghen. Per entrambi il commiato dal ring.
Tommy Hearns, detto il cobra, si è fermato alla soglia dei 48 anni, per la precisione a 47 anni e 6 mesi, attivo dal 27 novembre 1977 al 2 febbraio 2006, un percorso lungo il quale ha affrontato fior di campioni. Un record di 61 vittorie, un pari e solo 5 sconfitte, che portano i nomi di Marvin Hagler, Sugar Leonard, lo scomodo Iran Barkley (due volte) e Uriah Grant. Ma ha battuto Bruce Curry, Saensak Muangsurin, Angel Espada, Eddie Gazo, Pipino Cuevas, Wilfred Benitez, Murray Sutherland, Roberto Duran, Mark Medal, Doug DeWitt, Dennis Andries, Virgil Hill e Nate Miller. Mica bruscolini. Archie Moore, detto la Vecchia Mangusta, nato a Benoit nel Mississippi il 13 dicembre 1916 (data molto incerta, ricerche approfondite indicano il 1912), fanciullezza a dir poco problematica, debutto nei pro il 9 marzo 1935 (19 anni), carriera conclusa il 15 marzo 1963, a 47 anni, con un record di 186 vittorie, 23 sconfitte e 10 pareggi. Due tentativi falliti per cingere la cintura dei massimi, contro Marciano e Patterson, ma un regno infinito nei mediomassimi (oltre nove anni), è sceso dal ring a 46 primavere e tre mesi. Una vita sul ring a dir poco avventurosa. Ha fatto l’arbitro di incontri importanti e il nonno felice. Si è spento il 9 dicembre a 81 anni.
Anche il nostro Silvio Branco, detto il “Barbaro” nato il 26 agosto 1966, a Civitavecchia, esploso quando altri solitamente salutano, rientra tra i più longevi. Debutto nel 1988, conquista il titolo italiano, ma fallisce l’europeo e deve accontentarsi di cinture minori. Nel 2000 tenta la conquista iridata supermedi IBF contro Sven Ottke, ma il tedesco si impone a Karlsruhe. L’anno dopo firma con i Cherchi e inizia una nuova carriera a 37 anni, tra lo scetticismo quasi generale. Ma il non più giovane guerriero smentisce tutti. Il 10 ottobre 2003 sul ring di Marsiglia domina il francese Mehdi Sahnoun, fino ad allora imbattuto (24 vittorie), con una serie impressionante di KO. Silvio Branco lo demolisce a lo spedisce KO all’undicesimo round, portando in Italia la cintura WBA dei mediomassimi. Si batte due volte per l’europeo, tre volte per il silver WBC che conquista nel 2006 al Vigorelli di Milano a spese di Manny Siaca, portoricano già iridato supermedi nel 2004. Prosegue l’attività ad alto livello fino al 6 luglio 2013, quando conquista nella sua Civitavecchia il silver WBC dei cruiser a spese del finnico Juho Haapoja e dice addio al pubblico con un record di 63-11-3. Un mese dopo avrebbe compiuto i 37 anni di ring. Nell’ultima parte della carriera ha raccolto ricche borse che gli hanno assicurato un futuro tranquillo. Gestisce con successo una palestra a Civitavecchia.
Giuliano Orlando