La boxe è da sempre al centro di dibattiti accesi riguardo ai suoi effetti sulla salute fisica e mentale. Se da una parte è considerata una disciplina che sviluppa resistenza, coordinazione e autodisciplina, dall’altra suscita preoccupazioni per i potenziali rischi, in particolare quelli legati ai colpi ripetuti alla testa. Ricercatori e medici sportivi stanno approfondendo i legami tra trauma cranico e disturbi neurologici nei pugili, analizzando i dati con un approccio sempre più multidisciplinare. Di seguito, un'analisi basata su studi recenti che gettano luce sulle conseguenze a lungo termine della boxe.
L’encefalopatia traumatica cronica (CTE) è uno dei rischi più discussi tra i pugili professionisti. Uno studio pubblicato su The Lancet Neurology nel 2023 ha evidenziato che oltre il 40% degli atleti da combattimento sottoposti ad autopsia mostrava segni compatibili con questa patologia. La CTE è associata a perdita di memoria, depressione, aggressività e demenza precoce.
Un’altra ricerca, condotta dal team della Boston University CTE Center, ha analizzato 400 casi di atleti deceduti: tra coloro che avevano praticato boxe a livello professionistico per oltre 10 anni, l’85% presentava segni clinici di degenerazione cerebrale. Le lesioni cerebrali traumatiche (TBI) derivano spesso da impatti ripetuti, anche di bassa intensità, ma prolungati nel tempo.
Secondo uno studio pubblicato nel 2022 sul Journal of Neurotrauma, i pugili professionisti presentano un declino cognitivo accelerato rispetto alla media della popolazione. I test neuropsicologici condotti su un campione di 93 pugili mostrano un rallentamento nella velocità di elaborazione delle informazioni, difficoltà nella memoria a breve termine e compromissioni nell’attenzione.
L’aspetto psicologico non è da meno. Disturbi d’ansia, irritabilità, apatia e depressione sono stati riscontrati nel 37% degli atleti esaminati da uno studio dell’Università di Sydney nel 2021. Il collegamento tra questi disturbi e microtraumi cerebrali appare sempre più evidente, anche nei pugili dilettanti.
Non tutti i pugili sono esposti agli stessi rischi. Una review sistematica pubblicata su British Journal of Sports Medicine (BJSM) nel 2020 ha sottolineato come la frequenza e l’intensità degli impatti cranici sia significativamente maggiore nel pugilato professionistico. Tuttavia, anche i dilettanti non sono immuni: colpi subiti con casco protettivo possono comunque generare forze rotazionali sufficienti a causare danni cerebrali.
Il Comitato Olimpico Internazionale ha promosso l’introduzione di linee guida più stringenti per gli incontri dilettantistici, ma i dati suggeriscono che la durata dell’esposizione nel tempo sia il vero fattore critico, più ancora dell’intensità di singoli colpi.
L’evoluzione della medicina sportiva ha portato allo sviluppo di strumenti diagnostici più precisi, come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la diffusion tensor imaging (DTI), che permettono di rilevare alterazioni cerebrali anche nei soggetti apparentemente asintomatici.
Alcune federazioni di boxe, tra cui la USA Boxing e la British Boxing Board of Control, hanno introdotto programmi di valutazione neurocognitiva periodica, con test standardizzati eseguiti ogni anno. In parallelo, si stanno studiando materiali innovativi per i guantoni e caschi protettivi, progettati per ridurre la trasmissione delle forze d’urto al cervello.
Nonostante questi progressi, la piena prevenzione dei danni cerebrali nella boxe rimane una sfida aperta. La consapevolezza e l’informazione, sia tra gli atleti che tra gli allenatori, sono oggi strumenti fondamentali per affrontare il tema con responsabilità.