"E' nata una stella", "sarà il futuro del tennis". Le abbiamo sentite tante volte, e non sempre le profezie poi si sono avverate. Il cammino di Emma Raducanu induce a ripeterle. Se non sarà una "Champagne supernova", una scintillante meteora destinata a rapida implosione, ha tutto per diventare una delle prossime stelle del gioco. Il 6-4 6-3 a Leylah Fernandez nella finale più giovane allo US Open dal 1999 giustifica entusiastiche reazioni e speranze di magnifiche sorti e progressive, per entrambe le protagoniste.
Prima di Wimbledon non aveva mai giocato in un main draw del circuito maggiore. Era fuori dalle prime 300. Dopo gli ottavi ai Championships, al secondo Slam ha sorpreso tutti. La britannica, diciottenne nata in Canada, è la prima qualificata a vincere un major.
L'ha fatto senza perdere un set tra qualificazioni e main draw. In finale ha replicato il suo successo a Wimbledon da junior nel 2018, con punteggio quasi speculare: allora vinse 6-2 6-4.
La finale si è giocata nel segno dell'anticipo e della ricerca della varietà, dell'intelligenza al servizio dell'ambizione.
La canadese, capace di battere tre Top 5 per arrivare in finale, ha dovuto sempre inseguire.
Raducanu ha giocato complessivamente meglio diventando la più giovane campionessa Slam dai tempi di Maria Sharapova a Wimbledon nel 2004.
Fernandez non vinceva due partite di fila, prima dello US Open, dal torneo di Monterrey dello scorso marzo, che ha concluso con il primo trofeo WTA della sua carriera. Quel giorno sulle tribune, sotto le stelle del Messico, non c'era il padre Jorge, l'ex calciatore ecuadoriano che la allena da sempre.
Una scelta condivisa, perché aveva assistito dal vivo alla precedente, ad Acapulco l'anno scorso, che la figlia aveva perso. La forte scaramanzia di entrambi ha portato a questa curiosa decisione. Ma nulla ha potuto contro una giocatrice in missione che in tutto il percorso, qualificazioni comprese, solo una volta ha perso cinque game in un set: contro la georgiana Mariam Bolkvadze, numero 167 del mondo
Alla loro prima finale Slam, entrambe contengono le ipotizzabili tensioni, le comprensibili paure. La partita è lineare, di buonissimo livello e molto gradevole. Non danno segni di soggezione nello stadio di tennis più grande del mondo.
Già dall'inizio Raducanu scatta meglio e si prende il centro della scena. E' la più offensiva delle due e vuole farlo valere da subito. A volte tende ad eccedere con l'accelerazione in lungolinea, ma la migliore scelta dei colpi arriverà con il tempo, le opzioni infatti non le mancano né da fondo né sotto rete.
Fernandez si muove benissimo in orizzontale e contrattacca con naturalezza. Ma il suo tennis più schematico non riesce a incidere, a scavare dubbi nelle strategie della sua avversaria.
Nel primo set, concede dieci palle break condensate in due turni di battuta, il primo e l'ultimo. Entrambe le volte, finisce per perdere il servizio.
La palla le torna indietro sempre, e sempre più presto. Così anche il secondo set si trasforma in un inseguimento generoso e combattivo, per quanto vano. Sua sorella, presente nel suo angolo, le dà comunque uno dei suggerimenti più genuinamente teneri e sorprendentemente profondi che si siano visti su un campo da tennis: "Sorridi".
Leyla ci prova, ma non ci riesce. Soprattutto non nell'ultimo game della finale, non quando sul 30-40, prima di una palla break che avrebbe potuto anche ribaltare lo scenario, Raducanu chiede e ottiene un medical time-out. Ha strisciato con il ginocchio a terra e sanguina leggermente, è nel suo diritto fermarsi e chiedere l'applicazione di un cerotto prima del cambio di campo.
Fernandez non sfrutta la palla break alla ripresa del gioco e si ritrova presto a dover stringere la mano all'avversaria dopo l'ace che con forza simbolica conclude una grande avventura. E sembra dire "non può essere soltanto una primavera".