MANTOVA. Quando si dice che la boxe è una delle discipline più ricche di umanità e dietro i pugni ci sono storie emblematiche che danno quel carisma atto a nobilitarla, i quattro protagonisti della serata mantovana di novembre: Loriga, Socci, Khalladi e Kaba, meritano l’attenzione degli appassionati.
TOBIA LORIGA. Chiedo a Loriga, campione italiano welter in carica, di togliersi e torglierci un sassolino, ovvero il dubbio, sussurrato dopo il match di Mantova. Visto che hai 43 anni, che hai debuttato sul ring a 14, dopo la vittoria su Socci, cosa hai deciso? Lasci o prosegui?
“I guantoni li appenderò quando il mio corpo, la mia testa e il mio cuore mi diranno che è arrivato quel momento. Non sono un autolesionista, dico solo che il match con Socci l’ho dovuto preparare in poche settimane, che il Covid 19 non mi ha permesso di muovermi e quindi mi sono mancati le riprese di guanti e gli sparring. Con tutto questo e un leggero strappo al braccio destro, ho vinto e chi ha scritto che il mio maestro mi ha consigliato di smettere non ha riportato la verità. Ho chiamato Paolo Pesci che ha confermato che mai ha rilasciato tale dichiarazione. Certi giornalisti pur di fare notizia, inventano a ruota libera”.
Cosa ti spinge sul ring?
“La voglia di confrontarmi è nei miei geni, l’ho ricevuta da papà Salvatore, un grande uomo e un tecnico di prim’ordine. Da lui ho appreso il meglio, da parte mia c’è l’indole del combattente. Ero un predestinato sul ring. Nel comparto giovanile ho vinto tutti i campionati italiani, da quello dei canguri nel ’91 all’assoluto nel 2002 a Maddaloni. Ho vestito la maglia azzurra e mi sono preso parecchie soddisfazioni anche nei professionisti. Ho fatto un grave errore, non avevo capito che ero un welter e per anni ho regalato una categoria. Compresa la sfida contro Julio Cesar Chavez jr. per la cintura WBC del continente americano”.
Anche in quel caso è stato scritto che hai abbandonato, ormai senza forze. E tutto vero?
“Per niente, in quell’aprile 2008, quando accettai l’offerta ero imbattuto e anche quella volta combattei da superwelter. Il problema è che non sapevo quanto contasse l’altitudine. Infatti alla conferenza stampa che si svolse a Los Angeles in California, al livello del mare, mi sorprese l’’assenza del mio avversario. Poi lo capii. Il match si svolse a Queretaro la vecchia capitale, nel Messico centrale, vicino ai 2000 metri di quota. Vi arrivai un paio di giorni prima e quando salii sul ring ero senza energia. Ugualmente mi sono battuto con grinta e Chavez si prese parecchi pugni, smentendo la stampa che aveva scritto che gli italiani fanno solo ostruzionismo. Al nono round, misi un ginocchio a terra non per i pugni, ma per riprendere fiato. Prima dell’8 mi rialzai, ma l’arbitro non ne volle sapere e decretò lo stop. Mancava un round e pensavo di dare il meglio, per questo mi ero fatto contare. Purtroppo pagai il fattore campo, visto che l’arbitro era messicano. Ricordo che nello spogliatoio venne a complimentarsi per la buona prova Freddy Roche, uno dei più grandi allenatori al mondo”.
Alla “Croton Boxe” di Crotone hai preso il posto di Papà Salvatore, scomparso nel 2018, un’eredità impegnativa, come la conduci?
“Papà ha lasciato solo ricordi positivi, per questo tanti giovani e meno giovani frequentano la palestra ed io cerco di essere un buon maestro. Unisco in tal modo la possibilità di insegnare la boxe e restare in attività”.
Socci ha chiesto la rivincita, sei disponibile?
“Io non rifiuto nessuno, tanto meno Socci. Basta mettersi d’accordo, il campione sono io e quindi debbo avere il piatto più ricco. Rispetto tutti, non temo nessuno. Ho combattuto in Ucraina, in Spagna, in Canada, in Francia e in Inghilterra, sopportando spesso sconfitte ingiuste, senza mai lamentarmi. Preferirei avere un’opportunità europea che non ho mai avuto in 13 anni di professionismo, nonostante abbia vinto il Mediterraneo e l’Internazionale IBF e sia stato campione italiano welter e superwelter. Pen sodi meritarmela ampiamente questa opportunità”
Impossibile dire no allo “squalo” di Crotone, uomo e atleta senza età.
DARIO SOCCI. Aveva sognato ben altro debutto nella sua Italia, il salernitano Dario Socci (12-5-2) 32 anni, professionista dall’agosto 2012, giramondo di alto livello, punti d’approdo dagli Usa al Messico, dalla Germania al Giappone, sconfitto a Mantova dal campione dei welter Loriga.
Cosa è successo, dopo una buona partenza, si sono spente le lampadine?
“Ho avuto un blackout a metà match e non sono più riuscito a eseguire quanto avevamo studiato in palestra col maestro Giorgio Maccaroni. Sono deluso e non poco. Per questo chiederò a Loreni se sia possibile avere la rivincita”.
Chi è Dario Socci? Domanda d’obbligo, per un pugile che si è costruito una ragnatela di contatti incredibile, nel mondo, ma è scivolato nel match che segnava la sua prima volta in Italia da professionista.
“Pugilisticamente sono nato alla Metropolis di Salerno, dove sono entrato a 15 anni, disputando un paio di campionati giovanili. Nel 2008 ho vinto il titolo campano nei 69 kg. partecipando agli assoluti a Milano. All’esordio ho battuto il siciliano D’Antonio poi ho perso con Cirillo delle FFOO, sei anni più anziano. A quel punto vado a Roma, mi alleno all’Audace, entro nella Polizia e faccio da scorta ai politici, tra cui Silvio Berlusconi. Nel 2010 mi sposto in Spagna a Vigo nella Galizia, dove combatto nei dilettanti. L’anno dopo parto per gli Stati Uniti e mi alleno alla Gleason’s Gym, sul ring affronto gente tosta, affrontando tra gli altri Patrick Day, uno che aveva vinto il Guanto d’Oro. L’11 agosto 2012 a 24 anni debutto al professionismo col team di Hector Roca e Don Saxby, gente che ha allenato grandi pugili, fra i quali Arturo Gatti. Mi guadagno la vita facendo sparring e intanto perfeziono l’inglese che oggi parlo bene, assieme al messicano. Alla fine del 2012, grazie ad un contatto col grande maestro Sendai Tanaka vado a Tokyo in Giappone, dove ci torno nel 2015, visito anche Singapore, una città stato, unica al mondo, praticamente sul mare”.
Il motivo di questa bulimia che lo porta alla scoperta di culture e territori, ha una sua logica?
“Personalmente ritengo che il viaggiare sia la migliore scuola per arricchire la propria cultura, molto più della scuola. La filosofia di vita che mi ha spiegato il maestro Tanaka ti resta dentro e ti fa crescere come atleta e come uomo. Il Messico è a sua volta lo specchio della piramide umana, dal nulla al troppo, come anche gli USA. Il Giappone è lontanissimo da noi, eppure mi sono trovato bene. Come d’altronde l’Europa, che ho girato dalla Germania alla Repubblica Ceca e anche in Inghilterra, dove ho disputato l’ultimo incontro prima della sfida tricolore. Il 21 dicembre 2019 a Londra, salendo nei superwelter affrontando Troy Williamson (14-0-1) che ha il fisico da medio, in palio l’europeo IBF. L’arbitro mi ha fermato al decimo e ultimo round per una ferita all’occhio sinistro. Ne valeva le pena? Diciamo che è difficile dire di no a 15.000 sterline di borsa”.
Combattere all’estero comporta il rischio di perdere anche se hai vinto. Ti è capitato spesso?
“E’ un po’ la storia della botte piena e della moglie ubriaca. O l’uno o l’altro. Nel 2017 andai a Bloemfontein in Sud Africa, contro Tsiko Mulovhd (12-10-3), pugile modesto che avevo battuto abbastanza bene, ma la giuria locale era di altro avviso e così l’Intercontinentale IBF andò al pugile locale. Per fortuna tornai a casa con una discreta borsa. Ma il verdetto più assurdo lo subii sempre nel 2017, il 14 ottobre a Oclotan un piccolo centro in Messico, contro tale Jesus Alberto Morales, una nullità assoluta che dominai lungo le sei riprese. Incredibile, diedero la vittoria a lui. Quel 2017 fu davvero l’anno no. Dopo il Sudafrica ero tornato in Germania e il 15 luglio mi ingaggiarono a Nuremberg contro il georgiano Giorgi Urgiadze (21-41-1), collaudatore di professione, col quale ci giocai. Dopo sei round, l’arbitro e giudice decise che il pari stava bene ad entrambi. Così quando andai a combattere nella Repubblica Ceca, vinsi i tre match per KO, evitando sorprese”.
Il futuro?
“Al momento mi alleno a Roma alla Fortitudo Boxe, il gym che gestisco col maestro Maccaroni. Senza escludere, quando si esce dalla pandemia, di tornare negli USA, dove mantengo contatti con i vecchi amici. Come in Messico, a Guadalajara, nella Escuela de Boxeo Canelo Alvarez. Di certo, non intendo lasciare col ricordo di una sconfitta. Anche se perdere fa parte del gioco, è altrettanto vero che non ci si abitua mai”.
KHALLADI MOHAMED. Il porto di Tunisi era la rampa di lancio per lasciare quella terra, la sua, ricca di sole e polvere, ma priva di sogni da realizzare. Il sistema per decollare verso il sogno era nascosto in quei camion che entravano nella pancia dei bastimenti, e attraversando il Mediterraneo, approdavano in Italia.
“Salire sui camion non era difficile, il problema erano i poliziotti che vi salivano sopra e ci scoprivano. Facendoci scendere a calci. Ci avevo provato già tre volte, alla quarta non mi videro. Mi ero nascosto sotto una montagna di calzoni, rischiando di soffocare. Addirittura ero dentro un paio di taglia larga e facevo corpo unico. Gli autisti facevano finta di niente, capivano i nostri desideri e in quell’occasione mi diedero anche da mangiare. Quando scaricarono il camion, seppi che eravamo a Civitavecchia. Di nome conoscevo Napoli, Roma, Milano e Bari. Ero felice di essere arrivato in Italia, ma anche terrorizzato di non conoscere nessuno, con la paura che se mi avessero fermato, visto che ero senza documenti rischiavo di tornare in Tunisia. Era il 2007, avevo 19 anni, lasciando la famiglia che mi adorava, i due fratelli, mentre la sorella maggiore era in Germania”.
A quel punto cosa hai fatto?
“Sono arrivato alla stazione ferroviaria, mi infilo su un treno pensando andasse a Roma, invece quando scendo mi dicono che sono a Napoli. Ne riprendo un altro e finalmente arrivo a Roma. Appena sceso mi ferma la polizia. Non ho documenti e mi chiedono i miei dati. Qui ho la giusta intuizione, dichiaro nome e cognome, dicendo di avere meno di 18 anni, quindi minorenne e non possono spedirmi in Tunisia. Mi affidano ad una casa famiglia dove trascorro sei mesi. Vado a scuola di italiano, faccio qualche lavoretto e non finirò mai di ringraziare quelle persone che mi hanno ospitato. Ricordo alcuni loro nomi: Marilena, Susanna, Chiara, Ale e Domenico, persone squisite. Quando lascio Roma, mi danno un sacchetto dove avevano raccolto 170 euro, per aiutarmi. Mi commuovo ancora oggi al ricordo. La mia intenzione è di arrivare in Olanda, dove pensavo di restare. Invece mi fermo a Genova, città di mare come Tunisi, dove i pericoli sono ad ogni angolo. Finisco in Via Prè dove trovo alcuni connazionali che mi danno una mano. Premetto che fin da piccolo il mio idolo era il grande Alì e desideravo fare il pugile”.
Qui interviene Paolo Celano, ex pugile dilettante di buon livello col fratello Enzo, negli anni ’80, in nazionale con Iccio Stecca e Ferraguti. Diventato insegnante, nel 2004 apre una bella palestra a Cornigliano, cittadina a Ponente di Genova, fino agli anni ’90 dominata dai cantieri navali e dalle acciaierie, che dalle ciminiere eruttavano veleni terribili, rendendo l’aria irrespirabile. Finalmente all’alba del 2000, il tutto venne trasformato in produzione a “freddo” e l’aria tornò respirabile.
“Nel 2008, si presenta questo giovane tunisino, dice di chiamarsi di Khalladi Mohamed, - lo ha indirizzato un mio amico parrucchiere che lavora proprio in Via Prè, - ha 20 anni e vuole fare la boxe. Fisico asciutto, ma senza documenti e lavoro. Per due anni vive da clandestino, si allena e svolge in nero diversi lavori per mantenersi. Debutta da dilettante nel 2010 a 22 anni, sempre con la Celano Boxe, disputa 31 incontri. Nel 2014 a Gallipoli nel leccese, prende parte agli assoluti nei 64 kg. perde con un verdetto ingiusto dal siciliano Rovetto all’esordio. Nel 2015 a 27 anni, passa professionista. Chiedo inutilmente a Mario Loreni di prenderlo nella sua scuderia. Io cerco di seguirlo, ma devo anche curare i dilettanti, che sono la mia passione. Così, a prendersi cura sul piano organizzativo e della preparazione ci sono Lamantia che passa da preparatore a tecnico e Dino Orso che ha esperienza e opera in Piemonte. Comunque Khalladi si allena sempre da me” Il giovanotto, che nel frattempo mette su anche famiglia, diventa padre di due figli, cerca di abbinare lavoro e boxe. Non gli manca la volontà. Si industria prima in una panetteria, poi lavora sui ponteggi e paga il pedaggio di combattere all’estero. In Germania perde dallo svedese di genitori russi Anthony Yigit (24-1-1), ex campione d’Europa e sfidante al mondiale, in Finlandia pareggia col locale Jarkko Putkonen (16-7-2), dove uno dei tre giudici gli assegna la vittoria che avrebbe meritato, come a Malta, di fronte a Houthem Laamouz (16-1) un australiano che il 4 dicembre ha affrontato a Roma, Mario Alfano per il vacante titolo UE superpiuma. Dopo la sconfitta in Germania, inizia la magica escalation di Khalladi. Infila cinque vittorie a fila, quattro per KO, Le ultime vittime illustri sono Marcello Matano, Mirco Valentino e a Mantova, il campione italiano leggeri Arblin Kaba. Tutti battuti per KO. Dopo il successo su Matano, Mario Loreni lo prende nella sua scuderia.
Il prossimo appuntamento? Lo anticipa lo stesso Loreni. “Penso di inserirlo in una delle prime riunioni del prossimo anno, per un titolo internazionale. Inoltre spero che ottenga la cittadinanza italiana a tempi brevi, per poterlo inserire nel giro europeo, iniziando dall’Unione Europea dove ritengo sia all’altezza. Ha margini di miglioramento enormi. Possiede il pugno da KO e questo gli permette di avere il colpo in più”.
ARBLIN KABA. E’ il 2004, quando Arblin Kaba raggiunge l’Italia con tutta la famiglia partendo da Pilaf in Albania diretto in Italia. “Eravamo diretti a Rocchetta Sant’Antonio in provincia di Foggia, papà Argron aveva trovato casa e lavoro ed ora ci portava in Italia, non già col gommone e da clandestino, come aveva fatto lui qualche anno prima, ma con un viaggio piacevole e comodo. In regola con i documenti e tutto il resto. In quell’oasi tranquilla, ho trascorso la mia fanciullezza e la prima parte da giovanotto. Arrivando al diploma di geometra, Aurora la prima sorella si è laureata in economia e vive a Belluno, mentre Emel si è trasferita a Milano ed è infermiera diplomata. Papà e mamma Mirka, non si sono mai mossi da Rocchetta, lui lavora ancora da falegname, lei tiene i contatti con figli e parenti ed io appena posso torno a trovarli”.
Com’è nato il tuo rapporto col pugilato?
“Non c’è un motivo preciso. Ho sempre avuto, inspiegabilmente, la passione per la boxe, e appena si è presentata la possibilità a 17 anni, ho iniziato a praticarla a Foggia, alla Pugilistica di Luciano Bruno, dove ho iniziato a combattere, facendo 8 match da dilettante. Ogni giorno mi sciroppavo 50 km di autobus per andare ad allenarmi, che non mi sono ma pesati. Il maestro Bruno, bronzo ai Giochi di Los Angeles nel 1984, è stato fondamentale per la mia crescita da pugile e la maturazione da uomo. L’impostazione che mi ha dato non l’ho mai cambiata. Ho vissuto 10 anni a Rocchetta, e dopo il diploma mi sono trasferito a Bologna per frequentare l’università, l’Alma Mater Studiorum, iscrivendomi alla facoltà di ingegneria. È stato anche un modo per evadere da una realtà troppo piccola per me, e anche per le mie ambizioni sportive. Infatti la prima cosa che ho fatto appena giunto a Bologna, è stata quella di trovarmi una palestra di pugilato. Diciamo che la fortuna ha fatto la sua parte perché mi sono imbattuto in quella che è diventata è una seconda famiglia per me. Ovvero la Boxe le Torri, del maestro Paolo Pesci. Con lui sono cresciuto da subito e ho iniziato a crederci sempre di più, e ad amare questo sport in tutte le sue sfaccettature”.
Nel 2015 a Roseto degli Abruzzi hai conquistato l’argento agli assoluti, battuto in finale dal mancino di casa Vangeli. Che esperienza è stata?
“E’ stata la prima sconfitta da dilettante quella con Dario Vangeli. Per me era un pugile ancora inarrivabile quando lo incontrai. Avevo appena una ventina di match alle spalle, e la sua smisurata esperienza fece la differenza. Da lì sono ripartito con la consapevolezza che esperienze con pugili di qualità come lui potessero farmi crescere ed era ciò di cui avevo bisogno. Così come spero di riuscire a fare anche dopo la sconfitta di Mantova dello scorso 13 novembre. Anche se è tutt’altra cosa rispetto a quella da dilettante. Oltretutto è stata la prima da professionista. Ci vorrà tempo per somatizzarla del tutto, anche se le motivazioni per ripartire ci sono tutte. Diciamo che è stato un anno particolare per tutti. In particolare per lo sport. Più di un anno di inattività, il cambio di tre avversari nel giro di 20 giorni, per poi arrivare a fare un match non titolato con l’ennesimo cambio. Sicuramente tutto questo ha influito sulla mia mentalità. Si è trattato di un crollo mentale verso metà match, dopo che avevo dominato le prime riprese, facendolo anche contare. Poi mi sono rilassato. Non avevo la stessa grinta che mi ha sempre contraddistinto, fino alla settima ripresa in cui ho preso il colpo da KO. È stata sicuramente una sconfitta dolorosa, ma, forse anche se sono duro con me stesso, una sconfitta di cui avevo bisogno per trovare stimoli e ricordarmi che questo è uno sport in cui non devi mai rilassarti. Credo che serva tanto coraggio per proseguire, cadere, rialzarsi e andare avanti. E qualche volta purtroppo occorre finire a terra per capire chi realmente siamo e che cosa vogliamo. Ma è anche vero che è proprio da questo tipo di esperienze che si impara, si cresce e si migliora. Ma soprattutto si riparte”.
Con la boxe non ci si mantiene, come te la cavi?
“Purtroppo dopo due anni ho smesso di frequentare l’università anche se ho mantenuto l’iscrizione e spero di ritornare. Nel frattempo lavoro part-time in un supermercato, scarico il camion e faccio un po’ tutto quello che c’è da fare, almeno così riesco a conciliare la frequenza anche con la boxe.
Qualche ricordo dell’Albania e qualche episodio particolare.
“Del viaggio in Italia ricordo la paura di trovare un mondo sconosciuto. Avevo 10 anni, e c’era la tristezza e la malinconia di lasciare il posto dove ero nato. In particolare il nonno al quale ero molto affezionato. In Albania ci sono tornato spesso, nei primi tempi, ora manco da anni. Riguardo agli episodi, l’ultimo mi ha sorpreso positivamente. Due giorni dopo il match, mi ha chiamato Khalladi, chiedendomi come stavo e ricordandomi che sul ring si è avversari, ma dopo si deve restare amici sinceri. Non me l’aspettavo e mi ha fatto tanto piacere”.
Giuliano Orlando