Su Senna si è scritto, si sta scrivendo in questi giorni, nella ricorrenza del ventesimo anniversario della sua scomparsa, e si scriverà molto. Quindi, per una volta, è meglio provare ad uscire dal coro, e non commemorare solo la morte del campionissimo, ma con lui anche il povero Roland Ratzenberger e tutto quel maledetto weekend di Imola di 20 anni fa.
Questo è doveroso, soprattutto nei confronti di Roland, il cui incidente viene spesso erroneamente taciuto. E’ giusto parlare con lo stesso tatto, con la stessa malinconia di due piloti che più diversi non avrebbero potuto essere, ma ai quali la tragicità, sempre dietro l’angolo nel motorsport, ha voluto regalare la stessa ingiusta sorte. Uno era il grande Ayrton, forse il pilota più forte nella storia della F1, stella mondiale non solo nell’ambito sportivo, con tre titoli in bacheca conquistati con la McLaren, una delle squadre storiche, ed alla caccia del quarto alloro con un’altra grande squadra, la Williams campionessa del mondo in carica; l’altro era l’ultimo arrivato, Roland, che nonostante fosse coetaneo di Senna aveva coronato solo in quell’anno la gioia di debuttare in F1 sulla modesta Simtek, e prendeva parte al campionato solo per il puro gusto di correre in Formula 1, consapevole che a quell’età e con quella macchina, di prospettive ce ne erano veramente poche. Ovviamente si erano presentati ad Imola con obbiettivi diversi, Senna per tarpare le ali di una super Benetton pilotata da Michael Schumacher, l’altro aveva come obbiettivo primario quello di passare la tagliola delle pre-qualifiche.
Come però andarono i fatti, lo sappiamo tutti: incidente di Barrichello al venerdì, morte di Roland il giorno successivo, nove spettatori in coma al primo via dopo l’incidente di Lamy e Letho, incidente al Tamburello di Senna dopo la ripartenza. Ecco come la Formula 1 riuscì a farsi odiare. Sbarazzandosi in un attimo del più grande e dell'ultimo arrivato, cancellando in un attimo le differenze che c’erano tra i due per ridurli ad essere due identici uomini impotenti di fronte al loro destino e farli dire addio alla vita mentre facevano quello per cui erano nati, quello per cui avrebbero dato tutto, quello che amavano fare. Correre. Anche se sapevano che uno sport del genere è fatto anche da eventi tristi. E quei giorni lo confermarono.