Un italiano di nome Kobe – Il nostro amico Bryant – Andrea Barocci - Absolutely Free Editore – Pag. 228 – Euro 15.00.
Anni ’70, tempo di boom economico e anche di ricordi. Le messa a fuoco punta su Rieti, centro laziale, che ha nel suo corpo storie stupende in un periodo in cui soggiornarono personaggi, strani e straordinari. Giganti buoni come Zio Willie Sojourner, che dopo aver giocato nell’ABA di Julius Erving, nella seconda metà del 1970, va giocare nella Sebastiani Rieti che arriva a vette impensabili. Nel ’79 gioca la finale di Coppa Korac contro il Partizan Belgrado dell’immenso Kicanovic, che deve segnare da solo 42 punti, per battere gli italiani, guidati dall’americano e da Cliff Meely. Papà Joe Bryant arriva in Italia qualche anno dopo, sceglie la Sebastiani Rieti che gioca in A2 e diventa l’idolo dei tifosi. Segna a raffica, il suo gioco in netta contrapposizione alla filosofia americana, incanta il pubblico italiano. Nel 1984, arrivano moglie e figli. Che scelgono la tranquilla Rieti alla tumultuosa Roma. Sharia, Shaya e Kobe frequentano la scuola Guglielmo Marconi.
Bravi ad apprendere la lingua italiana al punto che Kobe diventa il maestro del papà. Il ragazzino cresce allegramente tra i compagni, mettendo in mostra precocemente qualità eccezionali. In una gara di minibasket fa piangere avversari e compagni per la differenza di qualità. Per diversi anni, quel morettino si ciba a gnocchi, lasagne e salsicce. Un ragazzo alla mano, tanto che lo definiscono “Jellybean” ovvero caramella di miele, ma questo non ostacola una carriera da star assoluta, che esploderà nei gloriosi Lakers, con cinque titoli nell’NBA e due ori olimpici. Nel lungo soggiorno in Italia: Pistoia, Reggio Emilia, Rieti fino a Reggio Calabria, il piccolo Kobe, come il padre Joe, ovunque approda lascia il segno. Un racconto scoppiettante e inedito, dell’italianità del futuro fenomeno del basket mondiale.