Gli autori hanno definito Paolo Pulici l’eroe favoloso e fiabesco, un po’ Tex Willer e il resto Don Chisciotte, del Torino. Uno sempre pronto a mettersi in gioco, pur di mandare gambe all’aria il potere precostituito. Come Claudio Sala, tre anni più anziano e suo capitano, nasce in Lombardia, nel 1950 a Roncello, nella parte Est di Milano. La terra lombarda ha germogliato molti giocatori che hanno fatto grande tra le altre squadre anche il Torino. Questo percorso viene descritto con dovizia di particolari, intrecciando la crescita sociale passata attraverso i sacrifici dei nonni e dei padri. Interessante anche se apparentemente staccato dal contesto della storia di Pulici, l’iter che fa conoscere la situazione storica del ventennio dal 1930 al 1950, passando dalla dittatura fascista alla rinascita dalle macerie di una guerra folle e crudele e dalla fatica della classe operaia e contadina, che non bada ai sacrifici per assicurare ai figli un futuro migliore. Pulici è il figlio di questa trasformazione. Primi calci nel Legnano – la stessa società che lanciò Gigi Riva - e nel 1967 a 17 anni è già del Torino, dove resta fino al 1983, ovvero 15 anni in maglia granata, dove diventa non solo il capitano ma il faro assoluto, Chiude la carriera giocando nell’Udinese (1982-83) e nella Fiorentina (1983-85), anche se il suo cuore pulsa sempre pensando alla Mole. Non potrebbe essere altrimenti, come confermano i numeri. Veste la casacca del Torino per 347 volte, davanti a lui solo Giorgio Ferrini (566 presenze), è il cannoniere assoluto (172), il primo in Serie A (134) e in Coppa Italia (29). Il presidente Orfeo Pianelli lo osserva con grande interesse quando ancora milita nelle giovanili, e commenta: “Fin quando sarò il presidente, questo giovanotto vestirà la maglia del Torino”. I fatti confermano la previsione. Quel giovane calciatore lo affascinava per lo spirito combattivo. Prendeva botte e finiva la partita con le gambe martoriate dai calci degli avversari, ma non si arrendeva mai. Fu così sempre, un guerriero indomito. Alla fine degli anni sessanta, il Torino è una specie di feudo brianzolo. Ci sono Claudio Sala, Luciano Castellini e poi Paolo Pulici. I tre dividono lo stesso monolocale. Insieme, anche se diversi nei ruoli. Pulici è quello che rischia le gambe ad ogni partita. Quanti duelli sul campo. Quali ricorda di più? “Burgnich era asfissiante ma corretto, mentre Galdiolo della Fiorentina, puntava la gamba, perché doveva assolutamente fermarti. Come Wilson della Lazio. Il più cattivo era il tedesco Berti Vogts, che picchiava con gusto”. Per la verità l’avvio calcistico di Pulici non fu a razzo. Giovanissimo in prima squadra, sotto la guida tecnica di Fabbri prima e di Cadè e Cancian, stentava a decollare come avevano previsto gli esperti. Si impegnava sempre ma segnava poco o niente. A fargli compiere il salto di qualità e quindi diventare cannoniere ci pensò Giagnoni, il tecnico che indossava il colbacco quando sedeva in panchina. Cosa fece? Gli impose l’esercizio del muro, che consiste nel calciare il pallone da 5 metri contro un muro, cercando di tenerlo rasoterra. Di destro e di sinistro di piatto, calibrando bene la potenza. I giocatori non lo amano, per questo è poco praticato. Giagnoni glielo impose per giorni e giorni e i frutti arrivarono. Facilitati dal fatto che pur essendo da cinque anni in squadra aveva solo 21 primavere e il futuro era tutto suo. Infatti per molte stagioni firmò sempre gol in doppia cifra. Il resto della storia di questo guerriero, che ha scritto in parte la storia del Torino, è tutta nelle oltre 400 pagine del libro e nel commento della moglie, sposata il 21 luglio 1969 che dopo oltre mezzo secolo di unione, esclama: “…sono volati, tanto sono stati belli; ma oggi come allora Pupi l’è sempre un bell’òmm”.
Giuliano Orlando