Tra le cose da tenere. Quelle preziose, rare. Quelle che un giorno racconterai a tuo figlio - se ne avrai uno - o ti serviranno nei momenti duri per ricordarti che può volere dire non mollare. L'impresa di Clemente Russo nella semifinale olimpica di Londra 2012 ha qualcosa che va oltre lo sport. E' un'opera d'arte, di boxe in primis certo, ma c'è di più. Ci sono segni di vita vera, tracce da conservare e fare proprie, una determinazione e un'astuzia da inseguire. Mi sono esaltato? Può essere; pace, non importa. E' stato incredibile.
Russo entra all'ExCel Arena di Londra con il solito spirito. Saltella, ha delle scarpe gialle evidenziatore e il ciuffo all'insù. La consapevolezza nei suoi mezzi non gli manca, non gli è mai mancata. Si sente padrone e artefice del proprio destino: d'altronde viene da Marcianise e ha scalato il mondo fino all'argento di Pechino 2008, verso una popolarità (anche televisiva) che ama, coltiva, cura. Di fronte a lui Aghasi Mammadov, che non ho idea di cosa significhi in Azerbaijan - da dove proviene - ma nella mia fantasia è sicuramente "figlio di mamma". È alto, molto. Almeno 15 cm più di Clemente.
Mammadov parte forte: poche chiacchiere, tanti colpi. Il primo round però è più che altro tattico, i due si studiano e si coprono molto. L'azero lascia viaggiare i pugni con disinvoltura, ma i guantoni dell'azzurro sono in posizione e sgonfiano gli attacchi. I giudici votano: lo spilungone vince 3-2 alla campanella.
Si va al secondo, ora i pugili si affrontano di più. Mammadov è carico, ha preso sicurezza. Incomincia a insistere, attacca, cerca spiragli. Russo fatica, accusa il peso dei colpi e si fa meno lucido. A un certo punto un rumore incredibile trapassa l'arena: l'azerbo è andato a bersaglio. Clemente colpito al volto, che botta. Il pugile di Marcianise arranca, pochi secondi dopo per un attimo addirittura si accascia sulle ginocchia. Ma è la stanchezza, non i colpi dell'avversario. Suona la Campanella per il secondo round. Meno male. Risultato: 6-4 (in totale l'azzurro è sotto 6-9).
Sembra andata. Russo è nel suo angolino, seduto. Gli danno dell'acqua e un asciugamano. Davanti a lui c'è Francesco Damiani, il tecnico del magico squadrone italiano. Un maestro. Urla e gesticola, colpisce Clemente e lo incita. E' una scossa di adrenalina.
Inizia l'ultimo round, "Tatanka" c'è. Fa partire un doppio sinistro micidiale: addome e volto di Mammadov, l'azero è spiazzato. Prova a replicare ma i suoi pugni sono ora depotenziati, fatica e non ottiene. Russo saltella senza guardia, lo affronta a viso aperto e lo carica con delle raffiche di colpi da spezzare il fiato. Lo spilungone si spompa veloce, ancora addome e ancora volto. Rimonta incredibile. Il gong sancisce la fine, seguita da secondi interminabili in attesa della decisione dei giudici. Termina 15-13 per l'italiano, è ancora finale nei pesi massimi dopo quattro anni.
Russo urla e prepara lo show davanti ai microfoni. Fa parte dello spettacolo, della boxe. Ma quello che va oltre c'è già stato. L'immagine dell'uomo spavaldo in difficoltà, piegato, addirittura a un certo punto in ginocchio. Smarrito mentre cerca la strada, mentre fatica a ritrovarla. Eppure sempre lontano dalla resa e con l'aiuto di una guida (Damiani), capace addirittura di scoprire nuovi colpi segreti. La risalita; difficile, mica regalata. Per ritrovare consapevolezza e ritrovarsi, fino a compiere quello per cui si era partiti fin dal principio. Non è un incontro di pugilato, è la vita.