Correva veloce, sulla sua Suter numero 48, per affrontare senza paura una piega verso destra, da imboccare a oltre 200 chilometri orari, senza sapere che la sua ultima curva l’aveva già superata. Gli bastò mettere una ruota sull’erba sintetica appena oltre il cordolo per perdere il controllo, finire a terra e ritrovarsi travolto senza rendersene neanche conto da Alex De Angelis e Scott Redding, due ragazzi che come lui avevano scelto di intraprendere la bellissima, difficile e pericolosa professione del pilota.
Ma a 19 anni non è ancora una professione, almeno non del tutto. Per Shoya Tomizawa, così come tanti altri ragazzi, era innanzitutto un divertimento, divenuto ormai un bisogno fisiologico senza il quale non si poteva vivere, un sogno da rincorrere su due ruote per arrivare a quei giorni di gloria che ogni bambino inizia a sognare dal momento in cui indossa per la prima volta un casco, o forse anche prima. Shoya il suo primo giorno di gloria lo aveva già avuto, quell’11 aprile 2010 quando, un po’ a sorpresa, vinse entrando di diritto nella storia. Quel giorno era un giorno storico, per la classe di mezzo del Motomondiale: era l’alba della Moto2, la classe intermedia che aveva preso il posto della vecchia 250cc. Era l’inizio di una nuova storia, con nuove moto, nuovi regolamenti e tanti piloti, che la rendevano la categoria con più iscritti. Non male partire subito così.
E dire che Shoya era entrato nel Motomondiale senza lasciare traccia prima di quel Gp del Qatar che lo aveva portato alla ribalta. Era entrato nel motociclismo che conta giovanissimo, a 16 anni ancora da compiere, come wild card per il Gp di casa del 2006 nella 125cc, nel mentre chiudeva al secondo posto il campionato giapponese di quella categoria. Sulla sua corsa non c’è niente da dire, se non che si ritirò. Andò leggermente meglio l’anno dopo, quando, sempre nel Gp di casa e ancora come wild card riuscì a vedere il traguardo, ma ancora una volta senza che nessuno si potesse rendere conto che fosse in pista: 22° posto. Poi arriva il 2008, anno in cui Shoya è secondo nel campionato giapponese 250cc e corre per la terza volta come wild card nel Gp del Giappone nel Motomondiale, in 250cc. Niente di che, ma qualcosa si muove, perché Shoya è 14°, e per lui sono i primi due punti. Qualcosa si muove dicevamo ed infatti per la stagione 2009 riesce a tagliare il primo grande traguardo della carriera, cioè quello di avere un contratto per tutta la stagione nel Motomondiale, categoria 250cc. Due decimi posti sono il miglior piazzamento, quelli che arrivano al Gp del Giappone ed al Gp di Valencia. Poi quella categoria cambia completamente, compresa la cilindrata, e questo è sufficiente affinchè si debba trovare un nuovo nome per la classe di mezzo: via la 250cc, nasce la Moto2. Nasce l’11 aprile 2010, in Qatar. Nasce sotto il segno di Shoya Tomizawa.
Per il giovane giapponese il successo di Losail è quello che vale una stagione, sufficiente affinchè si possa iniziare a tenere conto anche di lui. Alla seconda gara a Jerez è in pole e poi chiude al secondo posto, dopodichè arriva qualche difficoltà tra alti e bassi, ma arriva comunque un’altra pole position, quella di Brno. Poi, purtroppo, arriva anche il 5 settembre, la domenica nera di Misano, quella in cui il Motomondiale deve di nuovo fare i conti con la morte, un prezzo che a volte il destino fa pagare, per ricordare che le corse possono essere anche tremendamente bastarde, che sono in grado di toglierti in un attimo tutte quelle emozioni e quei sorrisi che fino a quel giorno ti hanno voluto regalare. Come già detto, Shoya ha appena passato il “Curvone”, mette una ruota sull’erba sintetica, perde il controllo ed un istante dopo ci sono De Angelis e Redding che non hanno neanche il tempo di provare ad evitarlo. Le immagini sono subito chiare, con quel corpo che rotola sull’asfalto, braccia e gambe che si muovono senza una logica prima che il corpo minuto di Tomizawa si fermi a bordo pista. Fa senso pensare che qualche tempo prima, mentre si discuteva sulle reali misure di sicurezza di una categoria che in alcune occasioni aveva toccato anche quota 40 partecipanti, Shoya avesse detto:”Agli altri non penso, mi concentro solo su me stesso”.
Da qui in poi si sprecano teorie, idee e supposizioni sul quando veramente il cuore del giovane giapponese abbia smesso di battere, e relativamente a questo a come il mondo del Motomondiale si sia mosso. La dinamica dell’incidente ed il corpo immobile sulla pista fecero pensare subito al peggio, ma la gara non fu sospesa, e tale scelta fu giustificata dai dottori della Clinica Mobile i quali affermarono che un’interruzione della corsa avrebbe creato più scompiglio e rallentato le operazioni di rianimazione. Fatto sta però che il pilota fu trasportato in ambulanza e non in elicottero, cosa che spesso viene fatta in casi critici come questo. Un caso critico Shoya lo era, perché il dottor Claudio Macchiagodena, responsabile medico del Motomondiale, parlò di fratture multiple toraciche, addominali e craniche con anche emorragie interne. La morte ufficiale fu registrata solo in ospedale, alle 14.19. Orario in cui era in atto la corsa della MotoGp, che si tenne normalmente quando invece un suo spostamento o il suo annullamento avrebbero potuto essere scelte plausibili. Ma a rendere forte il sospetto che Shoya fosse deceduto prima, furono alcune dichiarazioni dei piloti della classe regina, che a gara conclusa si fecero scappare qualche parola di troppo. Jorge Lorenzo, prima di glissare sulle domande successive, commentò con un “Si, lo sapevo” appena sceso dalla moto, mentre Valentino Rossi disse “Quando ho visto l’ambulanza andare così piano, ho capito”. Il che darebbe risposta anche al perché non fosse stata data bandiera rossa per utilizzare l’elicottero.
Su quando il povero Tomizawa sia effettivamente deceduto, un pizzico di giallo rimane. Di sicuro medici e dottori hanno fatto di tutto, compresi i soccorritori a bordo pista, anche se uno di loro inciampando aveva fatto cadere il corpo dalla lettiga. Vedere un pilota in quelle condizioni avrebbe scosso tanta gente, non c’è bisogno di gridare allo scandalo. Che il pilota sia morto subito dopo l’impatto, o in ambulanza oppure all’ospedale come racconta il comunicato ufficiale, dopo che si era cercato di stabilizzarlo per consentire il trasporto in ospedale, poco importa, anche se sarebbe giusto sapere la verità. Ma questa non è la sede di processi, è solo il racconto di un giovane che come tanti stava inseguendo un sogno a bordo della sua moto e che come tanti, purtroppo, è morto mentre faceva quello che amava. Ed è bello pensare che oggi Shoya e quei ragazzi siano là tutti insieme a divertirsi.