"Sono un campione Nba". Queste le parole di LeBron James dopo la vittoria del titolo con i Miami Heat, il primo per lui, conquistato dopo aver superato 4-1 nella serie finale gli Oklahoma City Thunder. Fin dal primo giorno in cui è entrato nella Lega, nel 2003, tutti gli occhi del mondo della palla a spicchi si sono posati su questo autentico scherzo della natura nato il 30 dicembre 1984 ad Akron, cittadina dello stato dell'Ohio. Anzi, già prima, quando era solo un liceale, dominava le scene, Adidas e Nike se lo contendevano e le sue partite di high school andavano in diretta nazionale. Poi l'era dei Cleveland Cavaliers, profeta in patria, una finale persa, 4-0 nel 2007 contro i San Antonio Spurs, e tante altre cocenti delusioni nei playoff.
Nell'estate 2010 ecco 'The Decision', la decisione: "Porto il mio talento a South Beach", dice James in diretta nazionale. Va ai Miami Heat e si unisce agli amici Dwyane Wade e Chris Bosh. Questa scelta lo fa diventare il più odiato, dai tifosi, soprattutto quelli di Cleveland, e subisce critiche a dismisura, anche dagli ex grandi, come Jordan, Bird e Magic Johnson, che gli contestano il fatto di essersi unito ad altre superstar del gioco per provare a vincere. La prima stagione in Florida è difficile ma raggiunge comunque la finale: contro i 'vecchi' Dallas Mavericks gli Heat sono favoriti, ma perdono 4-2 e James, oltre ad essere il più odiato, diventa anche il 'perdente' per antonomasia.
"Perdere le Finals lo scorso anno è stata la miglior cosa che mi sia potuta capitare. Ho dovuto cambiare", ha detto James. Durante il lockout ha lavorato sui fondamentali, non ha mai smesso di allenarsi e ha fissato l'obiettivo: il titolo. Si è messo la divisa mimetica, metaforicamente ma non troppo, ha guidato i compagni, comprese le altre stelle Wade e Bosh, e li ha trascinati fino in fondo, anche quando erano sull'orlo del baratro, come in gara 4 contro gli Indiana Pacers e in gara 6 a Boston contro i Celtics. "Ora o mai più" e LeBron, anche dopo il ko in gara 1 contro i Thunder a Oklahoma City, non ha mai smesso di avere un atteggiamento perfetto, duro in attacco e in difesa, da padrone del gioco, senza fronzoli, senza lasciarsi condizionare o essere a sua volta condizionante, come dimostra il suo account Twitter, senza cinguettii dall'inizio dei playoff.
E poi, forse per la prima volta, tralasciando numeri impressionanti che parlano di 28 punti, 10 rimbalzi e 7 assist di media, più l'incredibile tripla doppia di gara 5 (26+11+13, la prima in stagione), LeBron 'King' James, si è fidato dei compagni, ha smesso di giocare 'hero basketball', solo contro tutti, e gli altri hanno dato tutto per lui, come lui ha fatto per loro. Oltre a Wade e Bosh, che hanno accettato di stare vicino al re e non di sedersi sul suo trono, i Chalmers, i Battier, i Miller, i Cole, gli Haslem della situazione, hanno portato il loro contributo e sono stati decisivi, chi più chi meno in ognuna delle cinque gare della serie finale.
Alla fine però l'uomo copertina è lui, LeBron James, non tanto per il titolo di Mvp delle finali, quanto perchè forse sarà ancora il più odiato, ma di certo non sarà più un perdente. Onore al Re che finalmente, e con merito, ha conquistato l'anello.