Dici tennis e pensi a Wimbledon. Il tempio della racchetta, con i suoi prati verdi e le sue regole uguali da decenni. Sembra quasi una caricatura di una certa Inghilterra: quella snob, inaccessibile, alta. Reale. Sapevo poco di più di questo, oggi, quando ci sono arrivato per la mia prima volta. Ne sono uscito circa 12 ore dopo, con quattro incontri olimpici all'attivo e le stesse idee in testa, arricchite però da almeno cinque piacevoli sorprese.
- Che le Olimpiadi possono stravolgere davvero ogni cosa. Persino le leggendarie imposizioni di Wimbledon, permettendo agli atleti di non indossare obbligatoriamente le classiche divise bianche e colorando i teloni a bordocampo (da sempre rigorosamente verdi scuri) con le tonalità olimpiche. Addirittura di viola però... God save the Queen.
- Che nei bar invece di scegliere giovani modelle bionde e formose, un hostess tipo da noi, qui sono quasi tutte molto più vicine al modello Camilla Parker.
- Che intervistare il re del tennis Roger Federer cinque minuti dopo il suo incontro è molto ma molto più facile e probabile rispetto all'ultimo dei panchinari di Juve, Milan e Inter. Forse anche del Chievo.
- Che quando il battitore colpisce la parte alta della rete dire "net" è un errore. Il termine corretto in realtà è "let", dall'inglese "Let's play again". Ignoranza mia, sorry.
- Che a Wimbledon, in mezzo a tanti bacchettoni, se conosci la lingua madre delle tenniste puoi sentire in realtà delle imprecazioni capaci di far arrossire il peggior traccanattore di birra. L'importante è non farsi scappare nulla in inglese. La forma prima di tutto.