Quanti sono i record nel pugilato? Non si possono contare per il semplice motivo che la disciplina si presta come pochi altri sport al confronto, alla statistica. L’imbattibilità e la durata del campione, il campione più vittorioso, quello con più KO all’attivo, ma pure quello che, pur cadendo, ha la forza di rialzarsi e prima di arrendersi fa l’ascensore, come si usa in gergo. L’inglese Danny O’Sullivan (33-9-1), attivo dal 1947 al ’51, vittorioso in carriera sui nostri Tino Cardinale, Amleto Falcinelli e Guido Ferracin, nella sua Inghilterra, è quello del record. A Johannesburg, era il 2 dicembre 1950, l’idolo del Sud Africa Vic Toweel (28-3-1), mette in palio il Commonwealth e il mondiale gallo, conquistato cinque mesi prima a spese del californiano Manuel Ortiz. Lo sfidante è Danny O’Sullivan, campione britannico, sulla carta abbastanza facile. In effetti i colpi lunghi del sudafricano fanno effetto e l’ospite fin dal quarto round inizia ad andare al tappeto, ma ben lungi dalla resa, si rialza sempre prima del 10”. Lo fa per 13 volte! Towell si rivolge all’arbitro e chiede: “Cosa debbo fare per metterlo KO?”. Alla successiva caduta, la 14° per l’esattezza, Ted Benjamin lo conta sbrigativamente e lo ferma, anche se l’inglese accenna ad un’eroica protesta. Nella storia moderna non si ricorda qualcuno che l’abbia superato. Peraltro, il londinese non era nuovo a reiterati conteggi. Otto mesi prima, il 25 aprile ad Harringay, quartiere di Londra, tenta la conquista dell’europeo gallo, nei saldi guantoni di Luis Romero (156-19-6), il mancino spagnolo di origine marocchina, uno dei grandi assoluti tra i pesi gallo, attività frenetica dal 1942 al 1958, morto nel 2008 a 80 anni, a sua volta bocciato da Vic Toweel nel ’51 per il mondiale. A Londra il campione spadroneggia contro O’Sullivan che si arrende al 13° round, dopo aver subito ben 11 conteggi! In verità negli anni in cui si combatteva a pugni nudi, parlo della seconda parte del 1800, i conteggi fioccavano come i recuperi, Vado a memoria. Ricordo di aver letto sulla “Storia dei pesi massimi” di Nat Fleischer, che nel 1888, il grande John Sullivan, si trovava in Europa, prima a Londra, ospite dell’allora Principe di Galles, divenuto più avanti Re Edoardo VII per poi spostarsi in Francia, su invito del barone Rothschild e si esibì contro Charley Mitchell sul ring di Chantilly, nell’ampio appezzamento del nobile tedesco. I due lottarono per ben 38 riprese e Mithell venne contato ben 15 volte, anche se alla fine, l’arbitro chiese a Sullivan se accettava il pari, pur essendo in largo vantaggio. Con signorilità Sullivan non fece obiezioni.
Chi di conteggi non ha avuto bisogno è stato il thailandese Phaiboon Chumthon (22-9-1), che il 23 luglio 2010 sul ring del Maejo University di Chiang Mai, al via del primo round spara un destro al mento del connazionale Lookrak Kiatmugmee (7-7) al debutto, fulminandolo dopo 3”. L’arbitro dice stop senza alcun conteggio, vista la situazione. Fissando in tal modo, il KO più veloce nella storia della boxe. Entrambi hanno lasciato l’attività nel 2011, assicurandosi un primato difficilmente battibile. Altri tre incontri gli sono andati vicino, fermandosi ai 5”. L’8 febbraio 2002 in Ungheria a Budapest, si affrontano i massimi Oliver Rubin (23-2) al secondo incontro da pro e il collaudatore slovacco Peter Simko (2-39), che nei precedenti 17 incontri ne ha perduto 16, dei quali ben 14 per KO. Uno abituato ai tuffi, ma non si aspettava che il 15°, fosse da record. Rubin, che diventerà campione ungherese e dimostrerà di possedere pugno pesante, visto che dei 39 match sostenuti, ben 30 li vincerà prima del limite. Contro Simko, parte di scatto con un largo destro alla tempia del malcapitato slovacco che cade di schiena e resta immobile, L’arbitro Miklos Dory alza le braccia e chiama il medico. Ci vogliono un paio di minuti per risvegliarlo e farlo rialzare. Il tutto in 5”, che la Federazione indica come il KO più veloce in Ungheria. Il secondo è datato 18 gennaio 2007 a Houston nel Texas in una serata imperniata sul massimo locale Lou Savarese (46-7), origini italiane, agli sgoccioli di una carriera lunghissima, iniziata nel 1898 e conclusa in quell’anno. Nell’occasione batte Travis Fulton KO al 3° round. Savarese è passato alla storia per essere finito KO contro Mike Tyson a Glasgow (Inghilterra) in soli 38”, il 24 giugno 2000, ma in pochi sanno che un anno dopo al rientro, nella sua Houston (Texas), spedisce il connazionale Marcus Rhode, KO in 39”. Lou conclude la carriera il 30 giugno 2007 affrontando a El Paso, un altro veterano, L’ex pluricampione del mondo Evander Holyfield, perdendo ai punti. Nella stessa serata allestita al Grand Plaza Hotel, nei preliminari, il massimo messicano Bobby Flores (7-2), non ancora ventenne, impiega 5” a stendere Cody Awe, coetaneo dello Yowa, al debutto. Il messicano ha il tritolo nei guantoni: delle sette vittorie, sei le ha ottenute per KO al primo round. Awe finisce giù sul destro al mento ed è notte fonda, L’arbitro Charles Phillips, decreta il KO senza conteggio. Peccato che Bobby, fuori dal ring frequenti ambienti poco raccomandabili. Va in “vacanza” per quasi due anni. Al rientro trova il debuttante Mike Copley, che finisce giù al primo round, ma ha la forza di rialzarsi e ripagarlo della stessa moneta nel round successivo. Sarà l’ultimo match per entrambi. Flores muore nel 2016 a soli 38 anni, nel corso di un conflitto a fuoco tra bande rivali. Il terzo KO fulmineo ci riguarda da vicino, perché a subirlo è il mediomassimo Orlando Brizzo, nato il 20 dicembre 1976 a S. Benedetto del Tronto, inserito nel programma del 20 dicembre 2008 all’Hollywood Park Casino di Inglewood in California. Avversario il locale Joe Schilling, 24 anni, proveniente da Kickboxing e Muay Thai. L’italiano ne ha già 32 e l’avventura americana dura solo 5”, messo duramente al tappeto dal sinistro in gancio e dal destro al viso di Joe. Una doppietta senza appello. L’arbitro Wayne Hedgpeth, non esita a fermare l’incontro. Ho cercato di contattare Brizzo, per capire come fosse capitato in California, ma ogni ricerca si è arenata nel nulla. Risale sul ring il 2 aprile 2011, stavolta in Italia a Lanciano contro Andrea Di Monte, ma il risultato negativo non cambia. Finisce KO al terzo round. Da quel momento si sono perse le tracce. Mentre Di Monte ha proseguito fino al 2012, con un record di 4 vittorie.
Dai KO fulminei agli incontri che sono stati vere maratone. Siamo sul finire del 1800, la boxe è assai praticata, ma senza regole precise. Attivissima in Inghilterra, diversamente riconosciuta negli Stati Uniti. Alcuni la considerano fuorilegge, altri la sopportano, qualcuno l’accetta. Ricordiamo che il primo mondiale massimi in cui vennero imposti i guantoni ai contendenti fu la storica sfida del 7 settembre 1892 a New Orleans tra John L. Sullivan, idolo americano assoluto e il più giovane James J. Corbett che costrinse l’ormai stagionato campione alla resa, dopo 21 riprese. Sullivan l’8 luglio 1889 a Richburg nel Missouri, aveva difeso per l’ultima volta il mondiale a pugni nudi, costringendo alla resa dopo 75 riprese il coraggioso Jake Kilrain. Per molti i guantoni erano un segno di debolezza. Solo Daniel Mendoza, londinese di razza ebrea e padre ispano, nato nel 1793, fu uno dei propugnatori dell’uso, oltre che portare sul ring un modo nuovo di fare pugilato, puntando sulla velocità dei colpi e la mobilità delle gambe, contro la staticità di allora. Mendoza fu il propugnatore di questa rivoluzione tecnica in giro per l’Inghilterra, ingaggiato da un grande Circo, nel quale lo spettacolo della boxe era il più atteso dal pubblico.
Questo, quando la stragrande maggioranza dei pugili combatteva a pugni nudi, le mani fasciate da strisce di tela, per proteggere le dita e tenere compatto il pugno. Si disputavano incontri senza limite di riprese. In alcuni testi inglesi, viene riportato che nel 1825 a Chesire, nell’Ovest dell’isola, si disputò un confronto tra Patsy Tunney e Jack Jones, inglesi di media quotazione ma di grande resistenza, chiuso dopo la bellezza di 275 riprese per la durata di quattro ore e mezzo. Pazzesco, ma il record non appartiene a loro. Spetta a Jack Burke e Andy Bowen, due americani che si affrontarono a New Orleans la sera del 29 aprile 1893 e conclusero la loro battaglia il giorno seguente, dopo 110 riprese e con i due letteralmente sfiniti e sfigurati, ma ancora non domi. Li ferma l’arbitro Jhon Duff, che da diversi round guarda l’orologio, decretando il pari, dopo 7 ore e 20 minuti di lotta. Il prato è ormai quasi deserto, restano poche decine di persone, tutti scommettitori, contrari al verdetto, che non prevedeva il pari. Duff scende di corsa dal ring, aspettando la vettura con i cavalli, che lo deve portare in tutta fretta all’ufficio delle poste dove svolge il lavoro di telegrafista. Ormai in ritardo. Loro non lo sapevano, ma quella sfida resterà scritta per sempre, come il match più lungo della storia pugilistica. In quegli anni New Orleans non era certo una cittadina tranquilla, la malavita mostrava mille sfaccettature, la spartizione del territorio rappresentava l’aspetto più violento e incontrollabile, Anche gli italiani non scherzavano e la popolazione li vedeva come il fumo negli occhi. La sfida tra Bowen, beniamino di casa con ambizioni mondiali tra i leggeri e Burke, nativo di Galverston, ma residente a Chicago, da non confondersi con l’altro Burke, il peso medio di origine irlandese, rappresentava l’opportunità per gli scommettitori e tra questi i boss della delinquenza di giocare forte. Oltre che diversivo per le classi meno abbienti. Al contrario dell’Inghilterra dove la nobiltà stravedeva per la boxe, negli States la borghesia non la considerava. Il pubblico accorso all’Olimpic Club, un vasto appezzamento solitamente ubicato al fine settima dei meno abbienti, rappresentava una variopinta e ampia umanità. Gli emigranti soprattutto, i caraibici e altri giunti da fuori città. Pubblico femminile assente. La battaglia si sviluppa con alterni vantaggi, Bowen ha la pelle olivastra, più tarchiato, combatte molto raccolto, al contrario di Burke, che tradisce l’origine inglese, pelle chiarissima e diversi centimetri in più anche nelle braccia. Dopo una decina di round, discretamente accademici, Burke che malgrado l’apparenza più fragile è quello che compisce con maggiore determinazione, prende vantaggio. Così fino al 40°. Il pubblico incita Bowen che si sveglia e inizia ad attaccare, mettendo in affanno Burke piuttosto stanco e ferito. Quando sembra che la sfida vada verso l’uomo di casa, Burke tira fuori un sinistro bomba e Brown sembra ormai finito. Torna all’angolo con l’occhio spento, ma i secondi hanno l’arma segreta in una bottiglietta che gli fanno bere, Alla ripresa, Brown sembra rigenerato. I round scorrono implacabili e i due rallentano il ritmo fino a quando il pubblico inizia a fischiare. Ugualmente vanno avanti mentre la notte fa posto all’alba e l’arbitro è preoccupato di arrivare in ritardo al telegrafo. Poco dopo il via della 110° ripresa, Duff li ferma e decreta il pari. New Orleans entra nella storia, ma non lo sa. Come gli addetti alla pulizia che smadonnano niente male, per dover ripulire il prato, ridotto ad una pattumiera. Per chiudere, qualche curiosità in pillole. Il mondiale col maggior numero di spettatori, riguarda la sfida del febbraio 1993 allo Stadio Azteca di Città del Messico, tra l’idolo Julio Cesar Chavez e Greg Haugen (Usa). A sostenere Chavez si presentarono in 132.247 spettatori paganti. Mezzo secolo prima, nel 1941 a Milwaukee nel Wisconsin, accorsero al richiamo della boxe, in 135.000, stimolati dalla gratuità dell’evento, anche se la birra che rappresentava lo sponsor dovevano pagarla. L’evento presentava il match tra i medi Tony Zale, il croato che non aveva pietà di nessuno e il generoso Billy Pryor, costretto alla resa al nono round, dopo ben quattro conteggi. Ancor prima, era il giugno 1934 ad Amburgo in Germania, il massimo di casa Max Schmeling, per il quale i tedeschi stravedevano, contro il connazionale Walter Neuse, convinse ben 100.000 a presenziare: record europeo. Quello italiano spetta al grandissimo Duilio Loi, che la sera del primo settembre 1960 conquistò il mondiale dei superleggeri, battendo il portoricano Carlos Ortiz allo stadio di San Siro a Milano, davanti a 70.000 spettatori.
Giuseppe Papaleo, in arte Willie Pep, origini campane, un talento infinito in parte sprecato per il troppo attaccamento alle gonnelle, nonostante questo handicap è riuscito ad essere il pugile più vincente con 229 vittorie in carriera e due strisce di 62 successi consecutivi. Se avesse frequentato la palestra come i teatri di varietà il suo regno nei piuma, sarebbe durato ben più a lungo. Marciano aveva un debole per lui, era uno dei pochi ai quali prestava i soldi e non ne chiedeva la restituzione. George Foreman, campione ai Giochi del 1968 a Città del Messico, dopo la conquista nei pro della cintura nel 1972 e averla perduta nella notte magica, per Muhammad Alì, il 30 ottobre 1974 a Kinshasa nello Zaire, seppe attendere vent’anni per riconquistarla, il 5 novembre 1994 a Las Vegas, mettendo a nanna Michael Moorer, 18 anni più giovane (35 contro 27) al decimo round. Concludo con una doppia sfida del 1925, tra i medi Tiger Flower (118-15-8) nato nel 1893, mancino di colore, re dei medi nel 1926 e il canadese Jack Delaney (73-11-2), sette anni più giovane, sul ring di New York il 16 gennaio. Il match termina al secondo round a favore del canadese per KO, ma il clan di Flowers afferma che i guantoni del rivale erano “truccati”, ovvero avevano messo sul dorso del metallo. Rivincita al calor bianco, sempre a New York quaranta giorni dopo. Al quarto tempo, il destro di Jack mette ancora giù Flowers, che si rialza subito, ma torna a genuflettersi appena arriva il canadese per concludere. Il gesto non frena Jack che lo centra col destro e stavolta Flowers non è in grado di alzarsi. Apriti cielo, l’angolo del battuto assale l’arbitro e chiede la squalifica, Che viene concessa. Stavolta a scatenarsi e l’angolo del bianco e sul ring è il finimondo. Interviene la Commissione che prende una decisione salomonica, anche se extra regolamento. Si ripete il round. Bastano 65” a Delaney per stendere l’ormai esausto Flowers, stavolta senza extra time. Flower è deceduto nel corso di un intervento per rimuovere del tessuto agli occhi, avvenuto nel 1927 a 34 anni, ancora in attività.
Giuliano Orlando