Londra 2012: Schwazer, non basta "essere il numero uno"

Pubblicato il 7 agosto 2012 alle 08:55:03
Categoria: Atletica
Autore: Piergiuseppe Pinto

Sì, ha ragione chi dice e scrive che Alex Schwazer - oro nella marcia a Pechino 2008 - è un folle, un incosciente, un disgraziato. Che dopandosi di Epo a 27 anni ha rovinato tutto: passato, presente e futuro. Che ormai non gli resta più alcuna scorciatoia, nessuna via d'uscita. Sono e saranno ore d'inferno, chissà che momenti sta vivendo. Nemmeno l'ammissione, per quanto gesto che i ciclisti - anche colti con le siringhe nelle vene - spesso non hanno fatto, lo salva o riduce la condanna. Una condanna severa, morale e sportiva. Unanime. Un coro di sdegno forte e violento. Un qualcosa che non si sa bene se interpretare come il solito massacro del popolo o una civile reazione di sdegno e schifo della popolazione.

C'è delusione. Per carità passeggera come l'entusiasmo che accompagna queste medaglie olimpiche. Gente che ha vinto in un pomeriggio un oro, un argento e un bronzo (Campriani, Fabbrizi e Morandi) si è vista oscurare in molto meno dalla notizia di uno che cercava di fare il furbo. Ma che il peccatore fa sempre più gola del santo non lo scopriamo ora. La domanda però è: perché diavolo arrivi a farlo?

Dove sta l'inghippo? In questa luce abbagliante che travolge e illumina ogni quattro anni i più completi sconosciuti, o nel buio di tutto quello che si trova nel mezzo? "Volevo essere il numero uno", è la sua ammissione di colpa. Ma l'eco di ciò che potrebbe essere il grido puerile di un ragazzo colto in fallo, risuona nel silenzio di chi gli ha già voltato le spalle. Come il Coni e il suo presidente Gianni Petrucci, impeccabili in questa occasione, mentre - a onor del vero - forse non lo furono totalmente con Andrea Baldini, lasciato a casa da innocente quattro anni fa.

La risposta alla domanda resta priva di una risposta soddisfacente, ma qualcosa di più la confessione di Alex racconta. Primo: un eccesso di vanità. Secondo: una percezione dei Giochi sbugiardata dai fatti. Perché se è vero che l'oro è il passe-partout della fama, la storia si scrive anche - se non soprattutto - attraverso altre prose. Ci sono, e ci sono stati, personaggi alle Olimpiadi capaci di penetrare nella pelle. Medaglieri e podi c'entrano, è ovvio, ma sono fuggenti. La memoria di chi guarda è breve, quel che resta è il brivido, la scheggia. Sono le storie della palestra di provincia, i sacrifici, le cadute e le risalite. Sono le inquadrature di quei metri sotto al tunnel di Pechino, quando Schwazer entra da primo dopo 50 km di marcia all'interno dello stadio cinese per gli ultimi metri. Il pianto e il sorriso di quando ha tagliato il traguardo. Non importava il tempo e forse nemmeno arrivare davanti a tutti. Contavano i segni sul volto e nei muscoli.

Così ho sentito due frecce nello stomaco in questi Giochi di Londra 2012. Per il bronzo - quando tutti credevano nell'oro - di Valentina Vezzali e la semifinale di Oscar Pistorius, conclusa da ultimo. I limiti, come ho scritto in un articolo dei giorni scorsi, esistono per un motivo. Lo sforzo di chi ci convive e li affronta anche solo per sfiorarli appena, spesso perdendo, è quello che fa dei Giochi qualcosa di unico e speciale. Qui non basta "essere il numero uno", bisogna dare tutto, persino nella resa. E saranno luci più fedeli di mille flash d'agosto.