Sic, quasi come il pianto di un fumetto, ma vi prego: non chiamatelo "il ricciolino". Facile inquadrare come "caricatura" quel giovane pilota dai capelli un po' così e la parlata da "Riviera"; simpatica, trascinante, leggera (sempre). Marco Simoncelli però non era solo un ragazzo di 24 anni, era ed è altro, o meglio, di più. L'ho capito questa mattina, quando la notizia ormai girava da qualche ora. Mio fratello, anni 12, in un giorno significativo della sua vita sembrava un po' scosso. Gli ho chiesto cosa avesse: “Mi dispiace per Simoncelli”, mi ha risposto lui. Non trovando in me parole di conforto, l'ho abbracciato e ho pensato che in fondo il segreto dello sport sta tutto qui.
I campioni penetrano nelle persone "comuni" fino a scuoterne l'anima. Lo fanno con irruenza, audacia, passione, spesso senza nemmeno bisogno di trofei in mano come presentazione. Ci si affeziona a perfetti sconosciuti, visti sempre e solo attraverso il filtro di uno schermo, ma che si sentono vicini, accanto. Insomma sono come noi, ma meglio di noi. Si sale in moto con loro, si tiene il sospiro a ogni piega, a ogni sorpasso. Si esulta, si "salta in pedi sul divano" (come ci ha insegnato chi le loro battaglie le racconta su Mediaset ogni Gran Premio), si gode, si piange.
La Malesia, nel 2008, aveva regalato a SuperSic l'unico Mondiale della sua promettente carriera. La stessa pista, Sepang, questa domenica d'ottobre si è ripresa tutto, avidamente, con degli interessi impossibili da accettare, digerire, comprendere. Simoncelli dà il suo addio facendo quello per cui viveva. E lo fa veloce, come era in pista. Amare follemente la propria passione, questo hanno inciso sopra quelle tristi immagini che sono andate in onda per l'intera giornata. Senza mollare mai, nemmeno quella maledetta e amatissima moto quando ormai era per terra, perché arrendersi non era un termine contenuto nel dialetto romagnolo del Sic. Non ci sono spiegazioni alla morte. Quando arriva cadono lacrime, pensieri, certezze. Campioni.