Il calcio è uno sport per ricchi? No, meglio precisare: possono permettersi la partecipazione ai tornei calcistici di rilievo (prime serie nazionali, coppe europee, coppe intercontinentali, …) solo le squadre con un’elevata disponibilità di denaro (liquido o sotto forma di valore dei giocatori).
Il meccanismo, alla base di un circolo vizioso che, per definizione, è senza fine, è semplice: solo le squadre che vincono (nei campionati nazionali e nei tornei europei) possono ottenere dagli sponsor cifre elevate; solo chi ha sponsor che pagano milioni di euro all’anno, è in grado di ottenere i migliori giocatori; solo con i migliori giocatori è possibile vincere il campionato e la Champions League!
Ed è su questi giocatori e su queste squadre che migliaia di appassionati sportivi, ogni giorno, puntano nei migliori bookmaker non AAMS: quale attaccante segnerà prima, quanti rigori andranno a segno, quale squadra vincerà la partita e così via.
Dall’altra parte del campo, troviamo le squadre che non riescono a reggere a questa spirale e che, di conseguenza, possono puntare solo su una fortuita coincidenza di casi: sono club minori, che vincono poco e per un numero limitato di stagioni; di conseguenza, la loro permanenza in serie A (o in Bundesliga o in Premier League, …) è limitata nel tempo.
La competizione è però molto serrata, anche per le big europee, al punto che le squadre principali dei campionati di tutta Europa sono alla continua ricerca di strategie per fare soldi. Uno di questi è il naming rights applicato agli stadi.
La cessione del nome dello stadio ad uno sponsor, non è, a dire il vero, una novità: gli Stati Uniti, dove origina un po’ tutto ciò che ruota attorno al denaro e attorno alle manifestazioni sportive, ne hanno prodotto un primo esempio già negli anni Dieci del secolo scorso.
Era il 1912, infatti, quando i Boston Red Sox, squadra locale che milita tutt’ora nel campionato di baseball, iniziarono a giocare le partite casalinghe al Fenway Park, stadio sponsorizzato dalla Fenway Realty Company, società immobiliare che apparteneva al proprietario dell’impianto sportivo stesso.
Stessa lega sportiva, qualche anno dopo; è il 1926, quando lo stadio dei Chicago Cubs cambia nome e prende quello del proprietario della squadra, magnate dei chewing gum. Da allora, i Cubs giocano ancora al Wrigley Fields!
Da inizio secolo scorso, il fenomeno è letteralmente esploso, se si pensa che naming rights interessa il 90% degli stadi iscritti alla lega dell’NHL, l’83% dell’NBA, il 65% dell’NFL e il 60% dell’MLB.
A confronto, in Europa e in Italia il fenomeno è agli albori, ma sembra essere destinato a crescere di anno in anno: se le finanze delle squadre di calcio non erano delle migliori nemmeno prima, il colpo assestato dai mesi di lockdown per pandemia sembra aver inferto un duro colpo alle casse dei club europei.
Se fino al 2020 erano ancora pochi gli impianti sportivi pronti a cedere il nome ad uno sponsor in cambio di milioni di euro all’anno, ora la situazione è in sensibile aumento.
L’azienda che decida di sponsorizzare l’impianto sportivo di una squadra di calcio (o di un palasport) si trova di fronte a due alternative: limitarsi ad accostare il proprio nome a quello dello stadio, secondo le regole del cosiddetto presenting sponsor; acquisire in toto la titolarità dello stadio (mediante contratti la cui durata è pattuita tra le parti) e diventare title sponsor.
Nelle massime serie di Germania e Regno Unito, la quasi totalità delle squadre ha un impianto di proprietà e può, in maniera piuttosto semplice, pensare di cedere il nome dello stadio ad uno sponsor in cambio di una transazione finanziaria che garantisca al club la liquidità necessaria alle spese correnti.
In Italia, dove gli impianti sono quasi sempre di proprietà dei comuni che li ospitano, il passaggio è più complesso, ma non impossibile. Per citare un dato, solo il 24% degli stadi italiani sono di proprietà delle squadre che vi giocano.
Perché il naming rights sia un accordo che convenga ad entrambe le parti, sponsor e squadra, è ovvio!
Lo sponsor, in cambio di una transazione finanziaria di diversi milioni di euro, ha uno scopo ben preciso: ottenere una maggiore visibilità di fronte ai consumatori, mostrando e facendo sentire il proprio nome ad ogni occasione, sviluppando la brand identity, accrescendo la brand awareness (ovvero, la consapevolezza del marchio) e dando maggior valore alla brand experience. Questi sono anglicismi e termini tecnici tipici del marketing; i consumatori la chiamano semplicemente pubblicità!
L’azienda sponsor, dando il proprio nome allo stadio, va ben oltre la classica réclame: nel corso dei mesi e degli anni, il nome dello sponsor si legherà indissolubilmente a quello dell’impianto sportivo, prima, e della squadra (e dei suoi successi in Italia e in Europa), dopo!
Il club di serie A che scelga di giocare le partite casalinghe in uno stadio con il nome di una compagnia aera, di un’assicurazione o di qualsiasi altro bene o servizio in commercio, anziché di un giocatore che abbia contribuito alla storia della squadra, lo fa semplicemente per avere una maggiore e crescente disponibilità di denaro liquido.
Anche perché il prezzo pagato dallo sponsor secondo la logica del naming rights sarà tanto maggiore, quanto più elevate saranno le prestazioni del club in campionato e in Europa.
Degli esempi possono mostrare la differenza tra le big della serie A e le squadre minori dello stesso campionato. Il caso meglio pagato è ovviamente quello relativo alla Juventus, che dal 2017 associa al nome quello del proprio stadio quello di una compagnia assicurativa: Allianz Stadium! Al rinnovo del contratto scaduto nel 2023, è stato stabilito che dalle casse dell’Allianz verso quelle del club bianconero andranno 103 milioni di euro per il nome allo stadio, per il marchio sulle divise da allenamento e per la sponsorizzazione della squadra femminile.
A Cagliari, oggi c’è l’Unipol Arena, che porta nelle casse dei sardi 100 milioni di euro in 10 anni, mentre il Sassuolo, per giocare al Mapei Stadium guadagna 3 milioni di euro l’anno.
Si scende vertiginosamente di compensi con squadre come l’Atalanta, l’Udinese e il Monza: a Bergamo non si gioca più all’impianto Azzurri d’Italia, ma al Gewiss Stadium (750 mila euro), ad Udine il Friuli è diventato Dacia Arena (500 mila euro l’anno), mentre a Monza la squadra gioca non più al Brianteo, ma all’U-Power Stadium (250 mila euro l’anno).